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“Il ciclismo è uno sport di merda, e ci piace proprio per questo!”
Talmente di merda da risultare magnifico, perché fatto della stessa dimensione e della stessa sostanza della bicicletta, cioè la felicità. Ed è così chimicamente, surplus di endorfine. Ed è così soprattutto per mille altre ragioni, che con la chimica non hanno nulla a che vedere, ma riguardano il tempo, lo spazio, che riguardano in fondo la vita, della tua dimensione dell’essere. Perché la bici non è altro che un mezzo che accelera te stesso, non solo la comandi, devi spingerla; è un pezzo di acciaio (o di qualche altro materiale) che rispecchia fedelmente quello che hai da dargli, che non ha altro movimento se non il tuo, che impone sacrificio, voglia e coraggio.
Lo capisci ogni volta che esci in bicicletta che è così.
Lo capisci ogni volta che inizia una salita e i muscoli iniziano a tirare, il cuore ad accelerare, i polmoni a far male, la bocca a seccarsi, a riempirsi di un gusto metallico, e serve acqua, acqua da bere, da versarsi in testa quando fa caldo.
Lo capisci ogni volta che alla partenza c’è il sole e poi giunge il temporale, quello solito, la personalissima nuvola di Fantozzi che ti allaga fino alle ossa, che entra nelle scarpe quasi a farti uscire le rane.
Lo capisci quando d’inverno esci con tutto il vestiario giusto, ma in discesa, nonostante i guanti, le tue mani si congelano e sai che il naso e le orecchie non sono presi tanto meglio, iniziano a far male e ci vuole un’ora sotto la doccia bollente per rimetterti a posto.
Lo capisci quando è estate e la città dorme e tu sei già sveglio a pedalare che l’alba è arrivata da meno di un’ora perché devi rientrare per mezzogiorno per non scioglierti al sole.
Lo capisci quando un camion ti supera a ottanta all’ora e lo spostamento d’aria quasi ti fa cadere e il respiro ti si strozza in gola e le gambe ti si fanno molli per lo spavento.
Lo capisci quando una macchina non ti dà la precedenza o se ne frega della tua presenza e al respiro e alle gambe succede quello che t’è successo prima.
Lo capisci quando ti arriva il vento contro, magari forte, magari agli ultimi dieci chilometri e non ce la fai ad andare avanti ché le forze ormai ti hanno abbandonato, ma non puoi far altro che andare avanti e sperare che le forze non ti abbandonino per davvero.
Lo capisci quando sei all’inizio dell’ascesa e la montagna sembra un gigante insormontabile e sei già a tutta che nemmeno è passato un chilometro e chissà quanti ne mancano alla vetta. E poi quella vetta la raggiungi e ti guardi indietro e vedi la valle alle tue spalle, sotto i tuoi occhi e tutto assume un’altra dimensione.
Sui pedali ti fai piccolo, affronti un problema per volta, e così ascendi, scali, arrivi. Se sei bravo sfrutti questo anche quando sei sceso dalla sella. Altrimenti ti tocca risalire il prima possibile.
Un giorno a un Tour de France, Gianni Mura chiese a Marco Pantani perché andasse così forte in salita. Lui ci pensò un attimo e poi quasi di getto rispose: “Per abbreviare la mia agonia”.
Quell’agonia è la stessa che chi va in bici conosce bene, quella fatta di fiato corto e corpo pesante. Quell’agonia noi ciclisti normali, noi gente comune che va in bici, non la possiamo abbreviare andando più veloci, ce la gustiamo fino in fondo, perché è giusto così, non è altro che quello che cerchiamo, il ciclismo è uno sport di merda, un lunga agonia, ma ci piace un sacco proprio per questo,
perché ci fa sentire vivi.
Mi piacerebbe avere scritto queste parole.
Per fortuna l’ho trovate su un blog di
Giovanni Battistuzzi, nato nel giorno più freddo del secolo scorso a Conegliano, là dove la pianura veneta finisce e inizia il Prosecco. E anche le colline.
Lavora al Foglio da un po’. Scrive di bici, di ciclismo e di altre cose, dopo aver fatto il cuoco e perdigiornato. Cicloamante, ciclista cittadino, pantaniano, si interessa di mobilità, di cibo e di ciclofficine.
Ha scritto un libro, Girodiruota, che non è altro che il racconto del Giro d’Italia vinto da Vincenzo Nibali, corso in bicicletta da Napoli a Brescia, lontano dal Giro per provare a capire quanto il ciclismo sia amato, quanto poco girano in bicicletta gli italiani e quanto è dura la sella sotto le chiappe.
Vi lascio il link del libro e vi consiglio vivamente di comprarlo trovate anche il collegamento a suo blog, Clicca!.
Per chi, come me percorre migliaia di km l’anno in sella (10000 l’anno) non c’è un Mental Coach migliore di leggere a cadenza regolare questo articolo ora anche tu puoi ascoltarlo con questo podcast quando vuoi, mettilo nei preferiti. Trasmette tante motivazioni e sopra tutto emozioni
Ringrazio tanto Giovanni per averlo scritto e soprattutto per avermi dato la possibilità di leggerlo per voi. Ho comunicato con lui per chiedere l’autorizzazione ed è stato tanto gentile e disponibile.
Grazie Giovanni.
Cari ciclisti e care cicliste vi saluto come sempre col nostro motto.
La fuga in solitaria non è mai una tattica vincente Spero che saremo un gruppo compatto fino al traguardo.
Allora Rimani in scia A ruota Libera..
Ciao